"Strenuo sostenitore del capitalismo, anche in anni statalismo diffuso, Friedman fu un implacabile accusatore del Welfare State, autentica forma di assistenzialismo di stato di derivazione bismarckiana, che costa più di quanto rende. Seconda tale concezione paternalistica della povertà, lo stato (e non la persona) individua alcuni bisogni ritenuti "essenziali" e si assume di offrire, spesso in condizioni di monopolio, i relativi servizi all’intera collettività. Tale modo di affrontare la povertà fondato sulla redistribuzione in natura si rivela inefficiente, dato che, violando la libertà di scelta dei beneficiari, ottiene, a parità di costo, un risultato inferiore dal punto di vista del benessere di questi ultimi.
Se a questo si aggiunge, sia che il costo dell’assistenzialismo grava su tutti (anche sui poveri), mentre i benefici vanno spesso a chi non ne ha bisogno, sia il fatto che i servizi resi sono spesso assai insoddisfacenti, invece di ritrovarci garantita una "uguaglianza di accesso" a servizi pubblici essenziali, ci ritroviamo in presenza di una "ineguaglianza di uscita" dall’inefficienza pubblica: solo i benestanti, infatti, possono permettersi di pagare due volte gli stessi servizi, optando per la fornitura privata. Ma si sa che il vero scopo del Welfare State non è quello di aiutare i meno abbienti, ma quello di "ingrassare" politici, burocrati, sindacalisti e profittatori assortiti che vivono alle spalle dell’industria dell’assistenza pubblica.
Tra le idee alternative al Welfare State (idea peraltro assai discutibile) Friedman ha proposto l’imposta negativa (1962). Secondo tale idea, si individua un break-even point, in corrispondenza del quale non si pagano imposte. Invece che non pagare nulla al di sotto di tale cifra, Friedman propone che ai percettori di redditi inferiori a detta cifra lo stato assegni una somma equivalente a una percentuale della differenza esistente fra reddito minimo e reddito percepito*.
Tale redistribuzione in moneta, anziché in natura, farebbe salva la libertà di scelta dei beneficiari: lo stato non tratterebbe più i poveri come se fossero degli incapaci che non sono in grado di valutare da sé i propri bisogni, ma come individui responsabili. Inoltre, il sistema sarebbe immune dagli effetti regressivi attuali e, soprattutto, vedrebbe sottoposta alla disciplina del mercato e alla concorrenza la fornitura di quei servizi sociali di cui i cittadini hanno maggior bisogno.
Esponente della tradizione liberale classica, Friedman è criticato , oltre che dai keynesiani, dagli esponenti più radicali dell’anarco-capitalismo americano come suo figlio David, che si è preso anche la licenza di dargli del "socialista", il che, per il principale (anche se non sempre ascoltato) consigliere di Ronald Reagan appare quantomeno beffardo.
Uno dei maggiori terreni di scontro con gli anarco-capitalisti riguarda la proposta del voucher (buono-scuola). Friedman è convinto che l’istruzione sia in "bene pubblico", nel senso che conferisce benefìci che non sono limitati al soggetto destinatario dell’istruzione, mentre per quanto riguarda i problemi connessi al finanziamento dell’istruzione, sostiene che il finanziamento e la gestione del servizio scolastico siano due aspetti che vadano scissi. I governi potrebbero imporre un livello minimo di scolarità concedendo ai genitori dei titoli di credito non negoziabili da spendere per l’acquisto di servizi scolastici (e non per altri scopi!) in un istituto di propria scelta, ma "approvato" in base a criteri minimi di serietà e scolarizzazione, dalle pubbliche autorità. Detto sistema restituirebbe libertà di scelta alle famiglie, che potrebbero decidere a quale scuola mandare i propri figli sulla base dei propri valori, e allo stesso tempo garantirebbe quella varietà, diversità e pluralità di valori che sono essenziali in una democrazia libera, evitando la possibilità di indottrinamento di massa basato sull’imposizione di un’ideologia uniforme, uguale per tutti, anche se rifiutata dalle famiglie.