di Chaterine Simone
GEREIDA (Sud Darfur). Seduto in una povera capanna di frasche, un mazzo di fiori di plastica e un mangiacassette posati su un tavolino, Adil, il giovane re dei Massaliti, dice che sì, ha passato un brutto quarto d’ora. Turbante bianco, occhiali scuri, il «monarca» parla lentamente, in un inglese approssimativo. «Hanno persino cercato di rubarmi il satellitare», s’indigna. In Africa l’autorità dei re tribali non è più quella d’un tempo. Adil è re per caso. Il vero monarca, suo cugino, è partito da Gereida di buon mattino, lavora a Khartoum come ufficiale di polizia. Il primo settembre, all’alba, Gereida, piccolo centro del Far West sudanese, nell’estremo Sud Darfur, è stato attaccato da una dozzina di uomini. Massaliti, la tribù predominante nella regione, la stessa governata dal giovane Adil. Ma, come dice il re a interim, «senza soldi non c’è potere». Quella mattina i colpi d’arma da fuoco hanno svegliato la città, provocando «da due a quattro morti, secondo le fonti», precisa il governatore di Nyala. Tre feriti sono all’ospedale, uno è grave.
Tutti contro tutti
Per il Darfur è nulla, ma l’incidente è di cattivo auspicio. Per la prima volta, a Gereida, i Massaliti hanno attaccato gli Zaghawa, un’altra tribù tra le più influenti del Darfur. Tutti i combattenti facevano parte dell’Armata di liberazione del Sudan (Als) e più precisamente della fazione principale, comandata da Minni Arku Minnawi, un Zaghawa. E allora? Neri contro altri neri. Neri nel Darfur? In Sudan nulla è semplice. Dallo scoppio del conflitto, nell’aprile 2003, quando i combattenti dell’Als insorti contro il potere centrale e la sua politica discriminatoria, condussero il loro primo attacco di rilievo, contro l’aeroporto di El Fasher, capitale del Nord Darfur, l’Onu ha contato 300 mila morti e circa 2,5 milioni di profughi. Fin lì la tragedia sembrava uno scontro fra gli «arabi» e gli «africani» del Darfur, il regime arabo-islamista di Khartoum, sede del potere centrale, e le milizie janjawid, alla lettera «cavalieri demoniaci», per terrorizzare i villaggi e cacciare i contadini dalle loro terre. Poi le cose si sono complicate. «All’inizio - spiega un funzionario dell’Onu di stanza a Nyala - il conflitto contrapponeva l’esercito governativo ai ribelli dell’Als. Ma dopo l’accordo di pace di Abuja (siglato il 5 maggio fra il governo e la principale fazione, comandata da Minni Minnawi), la ribellione si è frammentata. Al Nord, nella regione di El Fasher, la guerra divampa fra i partigiani Zaghawa di Minnawi e i combattenti Four di Abdel Wahid Al Nur, capo della fazione minoritaria dell’Als, che non ha sottoscritto gli accordi di Abuja. E gli stessi Four sono divisi fra i seguaci di Adbel Wahid e quelli del suo ex braccio destro, Abdel Charfi». È chiaro che, con la fine delle piogge, scoppierà il caos nel Darfur, provincia sudanese grande come la Francia, abitata da 7 milioni di persone. Nessuno protegge i villaggi e i profughi ammassati nei campi di raccolta. I dirigenti della fazione dominante dell’Als hanno altre priorità. Dopo la pace con Khartoum Minni Minnawi è stato promosso «consigliere speciale» del presidente Omar al-Bashir, suscitando invidie e rancori tra i vecchi amici dei tempi della rivolta. Sul terreno «è il caos», conferma un diplomatico europeo. Fra i firmatari di Abja e i dissidenti, fra i guerriglieri pentiti e gli irriducibili, si aprono nuovi fronti. Si moltiplicano attacchi e rappresaglie. I 7.000 soldati dell’Unione africana, che a fine settembre dovrebbero ritirarsi, stanno a guardare. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha votato, il 31 agosto, l’invio di caschi blu. Ma Khartoum non vuole e il dispiegamento dei soldati della pace appare sempre più improbabile.
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