venerdì, settembre 15, 2006,13:05
Linea Bianca - Limina.
Prendete una squadra formata da Di Stefano, Baggio, Van Basten. E un’altra, da mettergli contro, formata da Gattuso, De Rossi e Materazzi. Non aggiungo commenti.
Ora, con analogo ragionamento, pensate al Corriere dello Sport, o a Tutto Sport. Ed anche un po’, un bel po’, parecchio diciamo, alla Gazzetta dello Sport. E poi a Linea Bianca. Stesso risultato: non commento.

Linea Bianca, edita da Limina, è un libro-giornale, presente micromega?, dedicato al calcio: un gran bel lavoro.
E il paragone col Trio Di Stefano, Baggio, Van Basten è calzantissimo, visto che le penne chiamate a riempire le pagine del trimestrale di scienza e cultura calcistica sono le migliori in circolazione nel giornalismo sportivo: Mario Sconcerti, Roberto Beccantini, Andrea Scanzi (su di lui mi dilungherò tra poco), Gianni Mura. E qui potrei chiudere la recensione e passare alla prossima…

E’ una rivista molto particolare, come ha avuto modo dire Mario Sconcerti. Basta leggere queste righe (dal numero 2, anno 2004) dello stesso direttore Sconcerti:
“ci troviamo di notte perché di giorno lavoriamo, beviamo e fumiamo, c’è molta aria di talento e osteria in questa nostra avventura. Ci sembra di avere ragione, che il grande mondo del calcio abbia bisogno di noi, almeno un po’. Siamo in tanti, abbiamo voglia di pensare e dissacrare, di costruire sempre. Siamo giovani e vecchi insieme, abbiamo le stesse esigenze, cercare di rendere la modernità a un mondo che si è fermato. Come vedete non siamo modesti. Siamo soltanto poveri.”
Ecco. Particolare. Con quel tanto d'arroganza che si porta dietro Sconcerti. Aria nuova in un’Italia vecchia. Aria pulita in un mondo marcio, quello del calcio, figlio legittimo di tutto ciò che di brutto gli ruota attorno: giornalismo sportivo compreso.

Basta con le presentazioni, veniamo al dunque. In edicola…anzi no…prima del dunque. Voglio spendere due parole su Andrea Scanzi. Perché spesso fai un passo e ti ritrovi nel bel mezzo della ragnatela –grandioso ragno- e alla fine sulla ragnatela ti ci trovi persino bene. E te la percorri tutta. Nodo per nodo. Punto per punto. Filo per filo. E scopri mille cose. Parti dal pallone che gira e ti ritrovi a Lisbona a leggere Pessoa. Inspiegabile, da lontano. E non la spiego neanche tutta la mia ragnatela, perché è la mia vita, e ve ne frega cavoli. Però di Scanzi bisogna parlare. Nominato qualche anno miglior giornalista sportivo under30. Un predestinato. Nel calcio, poi, non se ne vedeva in giro gente come lui. E il paragone non poteva che essere fatto con Gianni Mura.
E nel 2003, assieme a Dipollina, Pastorin e tutti gli altri, c’è anche lui a fondare Linea Bianca. Nel frattempo scrive per il Manifesto, di calcio soprattutto, e per il Mucchio Selvaggio, di musica. Nel 2004 è inviato in Portogallo, la casa della sua anima, la patria che sente più sua, a seguire gli Europei. E si divertì, claro. Ma da lì il calcio rimase fermo mentre lui si allontanava. Progressivamente, piano piano. Direi schifato.
“Non sono andato agli Europei con l’idea che il mondo del calcio fosse casto e illibato. Avevo 30 anni, non 7. Molto più semplicemente, credo che il mio distacco dal calcio sia una cosa naturale. Fa parte delle cose, del tempo che passa […] Il calcio si può ancora seguire con entusiasmo solo se si appartiene a due categorie: gli iper-tifosi e i nostalgici. Se, in altre parole, si guarda il fenomeno da lontano, molto lontano. Se si rinuncia alla razionalità, oppure ci si fossilizza nel calcio di una volta. In un monologo, Gaber diceva ironicamente: «Non dico che per seguire il calcio bisogna essere stupidi…però aiuta» […] Il calcio è qualcosa che va guardato con diffidenza. Criticamente. E’ un concentrato di difetti, colpe, derive tribali, […] Ecco: io non credo che meriti tutta questa attenzione. Mi piacerebbe vivere in un paese che sa infervorarsi anche per altre cose; che scende in piazza per motivi molto più nobili del fallimento del Messina o della retrocessione del Genoa; che non fraintende il patriottismo con il tifo smodato per l’Italia ai Mondiali. […] Perfino la letteratura calcistica è in difficoltà. E specifico “calcistica”, perché opere meritevoli di sport escono ancora (quello su Serse Coppi, per esempio). In passato sono usciti libri splendidi, su Gigi Meroni come su Maradona. Atleti nobili, bellissimi o comunque sfaccettati, complessi. Oggi è più difficile. Non è tanto un problema di scrittori, quelli ci sarebbero anche, basta leggersi il trimestrale Linea Bianca. E’ proprio un problema di materia, uno svilimento del contenuto. Come può essere bello, o anche solo decente, un libro su Trezeguet, Inzaghi, Recoba, Totti? Se la materia prima è anonima, quando non respingente, neppure il più grande scrittore del mondo può essere in grado di elevarla.
E infatti, almeno sugli ultimi numeri, Scanzi non compare su Linea Bianca. Che, comunque, non dà spazio al calcio degli Inzaghi e dei Recoba.

Sapete perché Pelè si chiama Pelè? Per un errore. Sapete la storia del primo gol di Pelè? E del primo rigore sbagliato? E della prima volta che fece il portiere e del perché lo fece? E quando fece l’arbitro per la prima volta? Si, anche l’arbitro…
C’è la bella e molto interista storia (sul numero 7) del Middlesbrough: 130 anni di storia senza vince un beneamato tubo. Come giustamente scrive Christian Giordano, autore del pezzo: c-e-n-t-o-t-r-e-n-t-a. Guardare wikipedia per sapere di cosa si accontento: piazzamenti. In questa non invidiabile classifica stilata dal New York Times segue il Somerset County (cricket) a quota (pivelli…) 105.
Roberto Beccantini firma (ancora sul numero sette, nel capitolo legato alle “prima volte”) un pezzo di quelli da conservare: il racconto della sua prima volta: dieci righe sul baseball, pubblicate da tutto sport. E quello della sua prima (di sette) olimpiade: Monaco 1972. L’olimpiade dell’attacco al villaggio da parte dei terroristi di Settembre Nero. Ma anche l’olimpiade della più pazzesca finale di basket di sempre: USA-URSS, con gli americani sopra di uno nel primo finale di partita. Nel secondo finale (dal tavolo giunse l’ordine di rigiocare gli ultimi tre secondi), invece, vince l’URSS col canestro di Alexander Belov. Primo oro del canestro che non finisce agli USA.

Il numero 8 è il numero chiuso, con un po’ di ritardo (“il primo lavoro ha rubato più tempo a tutti”), nei giorni della bufera che sconvolto –ma è già tutto passato…- calciopoli. Ma della Moggi Adventure ci sono ben poche tracce.
E’ uno dei numeri più affascinanti, forse proprio per il gran contrasto tra l’attualità calcistica ed i contenuti. “Fedeli al calcio” (il calcio visto come religione) e “Perdenti” sono i due titoli in copertina.

Pasolini guardava il calcio come “all’ultimo rituale sacro della nostra vita”. E forse pensando a questo che quelli di linea bianca sono partiti in un viaggio attraverso questa “vera e propria religione civile, oppio dei popoli” e persino simbolo di grandezza di un paese.

Primo tempo. Intervallo. Secondo tempo. Così è strutturato ogni numero di Linea Bianca.
E nell’intervallo, sugli spalti, ci si guarda attorno, grandi risate, pacche sulle spalle. Antonio Dipollina prende la parola:

“Pubblicità per l’azienda Pyrkis, scarpe ed abbigliamento sportivo.

In una distesa ghiacciata dell’Alaska ci sono Zidane, Messi, Del Piero, Van Nistelroy, Floro Flores, Gattuso, Henry, Materazzi e Sentimenti IV (con un videomontaggio di immagini d’epoca). Arriva anche Ronaldinho, che ha appena cambiato sponsor, e sta palleggiando con un tricheco, nel senso che il tricheco è il pallone. D’improvviso, la distesa ghiacciata si trasforma nel Grand Canyon, all’interno del quale tutti iniziano a giocare una partita a ritmi velocissimi, abbattendo a pallonate gli elicotteri con i turisti. Ma d’improvviso si trovano davanti a un reticolato e capiscono di essere a Guantanamom Gattuso sta palleggiando con un gorilla (nel senso che il gorilla sta palleggiando con lui) mentre sullo sfondo Materazzi sta torturando Christian De Sica intento a parlare al telefonino. Ma arriva un’astronave, tutti si fermano incantati a guardarla, si apre il portellone e ne scende Pierluigi Collina, mentre in un angolo Del Piero sta sparando con un fucile ad alcuni passerotti. La partita riprende a ritmi frenetici e con colpi spettacolari, finchè arriva King Kong e divora tutti quanti. Slogan finale: “nothing is impossibile, to be or not to be”.
Ma a spiccare è il secondo tempo. Onore ai perdenti. Paolo Barison, Jean Pierre Papin, Stefano Colantuomo, Giancarlo Antognoni, Roberto Bob Strulli, l’Olanda deli anni ’70 (“la più perfetta incompiutezza mai vsita”), l’Ungheria del ’54 e tanti altri.

Quella che non conoscevo è la carriera, sfortunata, in F1, di Chris Amon. Mai sentito in vita mia. Ma d’altronde, a dimostrazione che se non è l’Inter del perdente nessuno ne parla, nessuno l’ha mai raccontata. In Inghilterra è considerato uno dei più grandi piloti della storia. 850 kilometri in testa, l’eleganza nella guida, una capacità di rendere perfetta la macchina con pochi eguali ma –e che ma- mai un gran premio vinto. Neanche uno.
A 24 anni ha già esordito in formula uno, gareggiato per la Ferrari, vinto la 24 ore di Le Mans, quella di Daytona, e la 1000 kilometri di Monza.
Poi la sfortuna si infila in lui, anzi diviene lui stesso la sfortuna. Domina, ma un sassolino buca il radiatore. Domina ma i box gli suggeriscono di non spingere, davanti c’è una macchina che non ha mai finito una gara, certamente collasserà. Non collassa. Per tutta la gara migliora il record sul giro arrivando a cinque decimi dalla pole. La gomma si affloscia perché la ditta appaltatrice per finire in tempo non ha ripulito bene l’asfalto. Domina ma ha la visiera sporca. Strappa uno degli strati adesivi (è il primo ad usarli) che si tira dietro tutta la visiera. Capite da soli che a 300 all’ora senza visiera…

Non c’è modo di farlo vincere. Per fortuna la sfortuna si è fermata in tempo, ed almeno ce l’ha lasciato in vita: è tornata in nuova zelanda ed ha due gemelli.

“Mezzanotte passata da poco, mentre sfreccia a oltre 330 kilometri orari sul rettifilo di fronte ai box, la Matra 670 accusa un black out elettrico totale.
Si spengono i fari e tutto piomba nell’oscurità più assoluta. Al termine del rettifilo c’è una esse velocissima, ma insidiosa. SI chiama la “varriere” e i piloti la temono anche in pieno giorno perché non perdona il minimo errore. I meccanici ai box della Matra trattengono il respiro, lo schianto sembra inevitabile.
Quando i soccorritori arrivano sul luogo del presumibile incidente, trovano Chris Amon che arriva loro incontro a piedi uscendo dal buio col casco sotto braccio. Ha fatto la “varriere” in pieno, faltout come dicono gli inglesi, poi ha accostato su una via di fuga del circuito, ma ha danneggiato una ruota e non se ne fa una ragione. Ai meccanici francesci che lo guardano sbalorditi raccomanda di dare un’occhiata all’impianto elettrico”
scritto da Andrea&Serena



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